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miércoles, 22 de mayo de 2013

VITTORIA AGANOOR [9949]


Vittoria Aganoor Pompili (Ritratto).

Vittoria Aganoor
Vittoria Aganoor (Padua,1855 - Perugia, 1910) poeta italiana de ascendencia armena.
Séptima hija de Edoardo Aganoor y Giuseppina Pacini, en casa de su familia noble solían pasar celebridades como Andrea Maffei o Antonio Fogazzaro.
En 1876 se fue a vivir a Nápoles donde conoció a Enrico Nencioni. quien la ayudó con su poesía., aunque fue con su amigo, el poeta Domenico Gnoli, con quien mantuvo más correspondencia.
Su carácter derpresivo la hizo muy emocionalmente dependiente de su familia, y aunque fue una escritora precoz, su primer libro no se publicó hasta 1900, Leggenda eterna.
En 1901, se casó con Guido Pompilj, y se fue a Perugia.
Murió de cáncer el 9 de abril de 1910. Después de su muerte, gracias a su marido, fue cuando conoció más notoriedad.







La puerta de bronce

Un hombre bate una vieja puerta
de bronce, pero nadie atiende. La Luna
tan pronto pone un destello crepuscular sobre las esfinges 
de los frisos y la mano morena de quien llama;
no se escucha ninguna voz, ni respuesta.

Sólo el eco da en los pasillos oscuros 
el estruendo de golpes a la calma
ciénaga, alrededor de la campiña muerta
donde brilla la  sangre en la intimada
agua lívida y tiembla la torcedura
del sauce blanco hacia el fango pestífero.
No trilla la comodidad alada de los huéspedes
en ese desierto, ni al búho en las soñadas
negras torres que la Luna ha rehecho.

¿Quién sabe desde cuándo espera el peregrino?
¿Quién sabe desde cuándo bate aquella puerta
rodeado de la Maremma maldita?


LA PORTA DI BRONZO
   
Un uomo batte ad un'antica porta
di bronzo, ma nessuno ode. La Luna
appena mette una scintilla smorta
sulle sfingi dei fregi e sulla bruna
man di colui che batte a quella porta;
non s'ode voce né risposta alcuna.
Sola l'eco dai cupi anditi porta
il rimbombo dei colpi alla soggetta
palude, intorno alla campagna morta,
dove luccica a gore la costretta
acqua livida e trema la ritorta
vetrice alla pestifera belletta.
Non trillo d'alati ospiti conforta
quel deserto, né strige a quelle in vetta
nere torri giammai la Luna ha  scorta.

Chi sa da quanto il pellegrino aspetta?
Chi sa da quanto batte a quella porta
cinto dalla maremma maledetta?
   






 da: «Leggenda eterna»
   
MAI !
   
Sotto la luna i mille cavalieri,
come a squillo che chiami alla raccolta,
vanno, volano, ansanti, a briglia sciolta,
curvi sul crine dei cavalli neri.
   
Ciechi, folli, non vedono, sui vaghi
poggi, il grappolo offrirsi dalle viti,
né i casolari lampeggiar gl'inviti
di pace, in riva agli assopiti laghi.
   
No, no, no! Solo, luminoso, alato,
bello d'una terribile bellezza,
con voce di comando e di carezza
chiama il sogno da tanti anni sognato.
   
Laggiú laggiù tenacemente chiama
e laggiù l'orda turbinosa vola
credula, dove una crudel parola
spegnerà il foco dell'accesa brama.
   
Sta l'orrenda parola nel profondo
dell'abisso, che attira avido e inghiotte
chi le malìe sfidando della notte
corre ai miraggi che non son del mondo.
   
Ma che val! ma che importa? - Il sogno mente;
tutto è invano! - Che importa? Avanti! io sono
con voi, fratelli! e sprono e sprono e sprono
il mio cavallo disperatamente.
   



   
IL CANTO DELL'AMORE
   
Può dunque una parola, una sommessa
parola, detta da un labbro che trema
balbettando, valer più d'un poema,
prometter più d'ogni miglior promessa?
   
Può levarsi, a quel suono, una dimessa
fronte, raggiando, qual se un diadema
la cinga, e può dar tanto di suprema
gioia, che quasi ne rimanga oppressa
   
l'anima?... Io credo svelga oggi dai cuori
ogni ricordo d'amarezza, ormai
sazio d'umane lagrime, il destino.
   
È così certo! non mai tanti fiori
ebbe la terra, e il cielo non fu mai
né così azzurro, né così vicino!
   



   
IL CANTO DEL DUBBIO
   
Tace nella notturna estasi il cielo:
come d'oblìo profondo
in un magico avvolto immenso velo
cade nel sonno il mondo.
   
- O luna! apporti al core, che le aspetta,­
le soavi novelle?
Ancor m'ama? - Risponde: - È tardi, ho fretta:
domandalo a le stelle. -
   
Da le stelle qualcun par che mi guardi
pietoso... - Oh dite! ancora
m'ama? - E gli astri rispondono: - È già tardi,
domandalo all'aurora. -
   
Mesta l’aurora ecco dal mar salire
Velata insino ai piedi.
- M’ama? - Chiedo. Risponde: - Io nol so dire;
alle nubi lo chiedi. -
   
E delle nubi alla crescente notte
Ecco il mio grido suona.
Rispondono con lagrime dirotte:
- Povero cor!… Perdona! -
   



   
IL CANTO DELL’ODIO
   
Fugge al mar nelle fredde ombre del vespero
una fanciulla dalle guance smorte.
Non ha negli smarriti occhi più lagrime
ma il gran proponimento della morte.
   
Laggiù, tra lieti amici, allettan facili
trionfi e vani amori un freddo core
obblioso; laggiù di plausi echeggiano
le affollate per lui stanze sonore.
   
Dagli abissi, improvviso, assorge un dèmone
e passa nella notte alto gridando:
- Possa tu come un disperato piangere,
quella morta fanciulla indarno amando. -
   

   


ADOLESCENTULA
   
Quando t'ho conosciuto era d’aprile,
quel mese traditore
che nell’ebbrezza del nascente amore
pinge ogni cosa d’un color gentile.
Quando t'ho conosciuto era d'aprile!
   
E al di là della siepe io t'ho veduto.
Tornaví polveroso
dalla caccia; eri solo, eri pensoso.
Mi rivolgesti un timido saluto.
Al dì là della siepe io t'ho veduto.
   
Tornavi dalla caccìa; sul cappello,
largo e bruno, un irsuto
pennacchio; la giacchetta di velluto,
lo schioppo a spalla e.... mi sembrasti bello
sotto la larga tesa del cappello.
   
Io tornavo dal bosco ov'ero andata
a coglier dei ciclami;
del mio sentier fra gl'intrecciati rami
ti sarò parsa una silvestre fata
di quei freschi ciclami incoronata!
   
Ed era, ben ricordo, era il tramonto;
veniva su dai prati
l'alito sano dei timi falciati,
la fragranza che vince ogni confronto;
ed era, ben ricordo, era il tramonto!
   
Ma finì quella dolce primavera.
Ti rividi soltanto
l'inverno, in un salotto, ed eri tanto
diverso, Dio! nell'abito da sera,
coi solini alti e la cravatta nera!
   
Io ripensai quei giorni spensierati
e le campestri danze,
quei sogni, quel desìo, quelle speranze
di due giovani cori innamorati,
e ripensai quei giorni spensierati!
   
0 fresco aprile, o sano odor di timo!
Ridir t'udii, tra i crocchi, una volgare
celia; ti vidi, ignobile giullare,
di que’ tuoi lazzi rider tu pel primo.
0 fresco aprile, o sano odor di timo!
   
Tu, nuove arguzie rimestando in mente
di me non t’eri accorto.
Io tremai come se vedessi un morto,
un caro morto amato inutilmente,
tra quella folla gaia e indifferente.
   
Sul cor mi cadde, come un velo fosco,
un súbito sgomento.
E a chi di te mi chiese in quel momento
io rispondere osai : - Non lo conosco! -
Sul cor mi cadde come un velo fosco.
   
solino: colletto staccato di camicia da uomo
   

   
   



   
da: «Nuove liriche»
   
GLI STORNELLI DEL MAESTRO
   
Bel cavaliero,
lascia le vie traverse e che l'andare
sia pur lento, ma sia dritto il sentiero;
   
e in mente impresso
tieni, che i fior sull'orlo degli abissi
van guardati da lunge e non da presso.
   
Anche rimembra
questo: se trovi una capanna e un'ombra,
non chieder altro per le stanche membra;
   
e se in quell'ore
trovi la pace dentro il casolare,
non chieder altro pel tuo folle cuore.
   

   


GLI STORNELLI DEL POETA
   
Saggio maestro,
per rocce e forre, al sole e sotto gli astri,
io col volere le mie forze addestro;
   
né il piede ho avvezzo
alle rupi ove saltan le camozze
per sostare asolando al primo rezzo.
   
Predica agli egri
di coglier con la man tremula e magra
sol dell'aiuole i boccioletti integri;
   
tu certo ignori
che sui baratri e non per i sentieri
facili de la valle io cerco i fiori.
   
Non la segreta
pace dei casolari e non l'ingrato
ozio, ma il rischio e i turbini il poeta
   
ama; né sgombra
cerca la via di sassi e rovi; ha membra
di combattente, e per seguire un’ombra,
   
per inseguire
un sogno, un'orma, un suon che lo innamora,
affrontare egli sa gli scherni e l’ire
   
del volgo, i roghi
divampanti, le ingorde ugne dei draghi,
e fin l'etica vostra, o pedagoghi!
   
camozza: femmina del camoscio
asolare: alitare, spirare, rinfrescarsi
rezzo: soffio d'aria
egro: infermo, debole
   



   
MAGÌE LUNARI
   
Fosche rupi, dal tempo incise e rotte
tragicamente, intorno a una fanghiglia
d'acque morte, sogguardan nella notte
sorger la luminosa meraviglia
   
che scenderà tra poco alta sui gioghi.
Guardan, sentendo attingerle il portento
che muterà le vette orride in roghi
sacri, e gli stagni in puri occhi d'argento.
   

   


PASSEGGIATA FRANCESCANA
   
(a Jeanne Barrère)
   
- Santo Francesco, un triste parmi udire
fischiar di serpi sotto gli arboscelli.
- «Io non odo che il placido stormire
della pineta e l'inno degli uccelli».
   
- Santo Francesco, vien per la silvestre
via, dallo stagno, un alito che pute.
- «Io sento odor di timo e di ginestre;
io bevo aria di gioia e di salute».
   
- Santo Francesco, qui si affonda, e ormai
vien la sera e siam lunge da le celle.
- «Leva gli occhi dal fango, uomo, e vedrai
fiorire nei celesti orti le stelle».
   



   
IO ME NE ANDRÒ NELLA NOTTE
   
Io me ne andrò nella notte
quando saranno già tutti
sopiti; andrò per l'aperta
campagna, sotto le stelle,
ed esse udranno la voce,
la nota voce di giorni
altri e lontani; per esse
ritroverò le parole
obliate, e l'obliato
fremito, e l'impeto e il foco
di giovinezza.                   
                    In silenzio
m'ascolteranno, siccome
m'ascoltavano al tempo
andato, né del mio volto
vedranno il pallore. Tutto,
tutto, sarà come allora
per esse. Dentro la mia
anima, che avverrà mai?
   



   
LA BELLA BIMBA DAI CAPELLI NERI
   
La bella bimba dai capelli neri
è là sul prato e parla e gioca al sole.
Io so quei giochi e so quelle parole;
rido quel riso e penso quei pensieri.
Son io la bimba dai capelli neri.
   
Ed anche io vedo una fanciulla bruna,
gli occhi sognanti al ciel notturno fisi.
Quante chimere e quanti paradisi
negli occhi suoi! Te li rammenti, o Luna,
gli occhi febei della fanciulla bruna?
   
Ora è stanca; la penna ecco depose.
e la man preme su le ciglia nere.
Di quanti sogni e quante primavere
vide sfiorir le immacolate rose?
Ora è stanca; la penna ecco depose.
   



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